Interview with Cosma Orsi - Italian translation

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Michel Bauwens interviewed by Cosma Orsi. Translation by Cosma Orsi.


Cosma Orsi, Q. le sue recenti riflessioni gravitano attorno un paradigma produttivo che lei definisce economia politica del peer to peer (p2p). Di che cosa si tratta?

R: Il mio argomento principale è che grazie alla nascita di una varietà infinita di nuove tecnologie stiamo assistendo al cambiamento delle condizioni all’interno delle quali la produzione avviene, e questo rappresenta una sfida alla supremazia di un modo di produzione basato sul profitto. In questo caso, non è che i lavoratori abbiano intrapreso una lotta consapevole per cambiare il sistema economico, bensì le nuove tecnologie mettono in grado un numero sempre maggiore di persone di produrre direttamente valori d’uso attraverso nuove pratiche che sono al di fuori del controllo del mercato, e con mezzi di produzione che sono stati socializzati in larga misura. Questi nuovi processi produttivi sono post-capitalisti, nel senso che la loro riproduzione non necessita più del capitale. La caratteristica fondamentale dell’emergente infrastruttura tecnologica è data dal fatto che essa si basa su networks distribuiti. Questo permette agli individui di impegnarsi e relazionarsi gli uni agli altri attorno a progetti comuni. In quanto queste attività riducono al massimo la soglia per partecipare a tali progetti comuni, si trovano sempre più motivazioni che esulano dalla ricerca del profitto. Tra i nuovi processi sociali innescati da questa rivoluzione, il più importante è rappresentato dalla possibilità di produrre in comune artefatti complessi senza dover ricorrere ne alla produzione di mercato ne di ricorrere al supporto di tipo statale; in secondo luogo, l’abilità di piccoli gruppi di agire su scala globale permette di sostituire l’allocazione gerarchica con una coordinazione dal basso attraverso una miriade di piccoli gruppi o di semplici individui; terzo, nel contesto della produzione di beni immateriali non-rivali, è possibile condividere i beni senza che essi perdano di valore per coloro che ne fruiscono; questo non solo permette ad una logica di contribuzione volontaria di diventare possibile ma, grazie alla disponibilità universale, tale logica diventa un requisito naturale che non riversa alcun costo aggiuntivo al sistema. Questo è il motivo per cui mi sono interessato alla logica peer to peer intendendola come una forma di scambio generalizzato basato sulla non-reciprocità. E’ una forma di condivisione che deve essere chiaramente distinta dalla così detta economia del dono, in quanto essa viene effettuata nella sfera immateriale dei beni non rivali. In breve, la peer production rappresenta un terzo modo di produzione, auto-organizzata. Essa richiede una specifica governance e una nuova concezione di proprietà che protegga le pratiche p2p dall’appropriazione privata. L’economia politica p2p non si basa più sulla circolazione del capitale, ma su quella del sapere condiviso. La pre-condizione per la cooperazione sociale è l’esistenza, o l’auto-creazione, di materie prime liberamente fruibili da tutti cioè materie prime il cui accesso non sia vincolato da alcun permesso o pagamento; le materie prime vengono processate attraverso tecnologie che abbassano la soglia di partecipazione fino al punto che ogni motivazione diventa produttiva, includendo specialmente le motivazioni non pecuniarie;. Il risultato finale assume la forma di un qualcosa di comune, garantito legalmente contro l’appropriazione privata da nuovi tipi di patenti. Questo processo a sua volta crea nuove materie prime liberamente accessibili che servono per la successiva fase di cooperazione sociale. Ecco che ci troviamo di fronte ad un circolo virtuoso di creazione comune.


Q: Questo tipo di economia politica che lei va promuovendo da tempo è radicalmente differente dalla tradizione ortodossa specialmente per l’assunto ontologico (riguardante la natura umana). Quale è la sua idea di essere umano e di società?

L’economia politica che fa riferimento al capitale si basa sull’assunto di un individuo atomizzato, incapace di sostenere relazioni sociali, che si relaziona con gli altri soltanto attraverso l’istituzione mercato, e che nella maggioranza dei casi non ha accesso ai mezzi di produzione. Anche se ha retto saldamente l’impianto economico degli ultimi secoli, questa visione razionale dell’uomo economico è completamente priva di fondamento in quanto un essere umano così descritto non è mai esistito. La realtà è che il capitalismo continua a reiterare questa visione, con il solo risultato di disintegrare i legami sociali. Al contrario, l’economia politica p2p si basa sul riconoscimento della relazionalità come base comune della civilizzazione umana (ad esempio, gli esseri umani sanno perfettamente di essere sempre immersi in relazioni sociali, molte delle quali scelte per affinità elettive). L’identità di ciascun essere umano è costruita attraverso l’impegno e la contribuzione a progetti comuni. La cooperazione è di primaria importanza e la competizione avviene attraverso le scelte ideologiche che le persone reali si trovano ad affrontare, a quali progetti aderiscono, o che vorrebbero intraprendere. Il nuovo individualismo cooperativo coincide con le condizioni strutturali di importanti segmenti produttivi (lavoratori) della conoscenza i quali hanno un accesso facilitato a computers e networks che usano per creare valore. Questi mezzi di produzione, in quanto socializzati non sono monopolizzati dal capitale. La peer production sta diventando una pratica sociale generalizzata, un aspetto della vita quotidiana per chiunque voglia usufruirne. In fatto di tecnologia non mi sento affatto un determinista. Piuttosto, vedo la tecnologia come il risultato di una mutata consapevolezza dei designer, i cui ‘prodotti’ a loro volta cambiano la percezione di ampi settori della società. La peer production è il risultato combinato di una cambiata ontologia, mi riferisco al passaggio dall’individualità alla relazionalità prima discusso, (senza per questo appellarmi ad una concezione di comunità pre-moderna) di una mutata epistemologia che ci conduce verso un sapere partecipativo. Questa più complessa epistemologia rifiuta sia la dicotomia oggetto/soggetto che fin dai suoi albori ha caratterizzato la modernità, sia la dicotomia tra esperti e persone comuni, che quella tra produttori e consumatori. Al contrario, il mutamento sperimentandola quale stiamo assistendo implica una domanda sempre maggiore di co-creazione e co-design di prodotti finali intangibili, e la crescita del numero di professionisti amatoriali non più soggetti alle pratiche di verifica della validazione istituzionale. La peer production si basa sull’idea di eliminare la richiesta di dati ogni qualvolta sia necessario accadere alle informazioni, preferendo l’auto selezione di compiti, la continua produzione di artefatti comuni, sempre perfettibili e mai intesi come definitivi,, e un controllo di qualità che avviane attraverso la validazione da parte della comunità dei fruitori, attraverso un sistema di scelte collettive. E per ultima, di rinnovata assiologia, un set di valori secondo i quali la condivisione diventa l’opzione preferita, il lavoro diventa appassionato, pieno di senso in quanto permette di sviluppare appieno le capacità di ognuno. Solo così, infatti è possibile che il lavoro non alienato diventi una realtà per un sempre maggior numero di uomini e donne, specialmente per i giovani. Questo set di valori non rappresenta soltanto la richiesta di maggiore eguaglianza per la classe lavoratrice, ma sancisce il riconoscimento della equi-potenza di tutti gli individui. Ciò significa che tutti gli esseri umani sono più o meno bravi rispetto ad un determinato numero di compiti, ma la bravura in un compito non è misura di superiorità. E’ questo che permette una produzione a grappolo, auto-selettiva che sarà in seguito validata dall’intera comunità dei pari. In breve, il motto è ‘lascia che centinaia di fiori sboccino, e scegli i fiori migliori a posteriori.’ Il nuovo immaginario sociale è conscio dell’invisibile infrastruttura che determina lo scopo della libertà all’interno delle relazioni umane, e cerca di superare le contraddizioni che sorgono dall’antagonismo tra l’egoismo e l’altruismo ideando meccanismi in grado di favorire la congruenza tra l’interesse individuale e quello collettivo, rendendo il surplus che deriva dalla collaborazione etico e sociale. Io vedo l’evoluzione dell’umanità muoversi da una civiltà basata sullo scambio ad una basata sulla contribuzione.


Q: Lei vede la produzione p2p come un mezzo per potenziare una società civile oggi stanca e marginalizzati, spossessata di molta della sua creatività come risultato di secoli di sfruttamento capitalistico?

R: Certamente. Io vedo la produzione p2p come un seganle di rinascita, che permetterà alla società civile di tornare ad essere un attore rilevante nei processi economici e sociali. Si guardi al linguaggio che viene oggi utilizzato: le principali organizzazioni della società civile o si definiscono no-profit o non-governative, implicando che esse sono in un modo o nell’altro mutuate dal mercato o dallo Stato. Ma le istituzioni che governano il mondo p2p, (Wikimedia, Mozilla Foundation) preferiscono proporsi in maniera positiva, definendosi semplicemente for-benefit, implicando una pratica e una identità pro-attiva. Alla peer production sono legati un modello di governance e una nozione di proprietà che deve essere distinta sia da quella privata e da quella pubblica mutuate direttamente dalla società civile. La peer production non è una produzione statale, la peer governance non è ne burocrazia ne democrazia rappresentativa, e la peer property è inclusiva e comune, non collettiva pubblica. La priorità della peer governance è l’eliminazione della richiesta di permessi, l’abolizione delle credenziali, delle negoziazioni economiche ogni qualvolta sia possibile. Ma non è tutto qui; essa vuole soprattutto evitare la nascita di un individuo collettivo che seppur proveniente dalla società civile possa appropriarsi di risorse comuni a suo esclusivo vantaggio. La peer production è post-capitalista, senza per questo voler abolire ne il mercato - piuttosto essa lo sussume come un sotto sistema per allocare risorse scarse secondo il meccanismo dei prezzi – ne lo Stato, pur aspettandosi che lo Stato diventi un partner che lo metta nelle condizioni di operare attraverso la messa in opera di infrastrutture che permettano la partecipazione, attraverso la quale la produzione diretta di valore sociale avviene. Chiamo questa forma di stato Partner State.


Q. Una delle questioni che le stanno più a cuore è che il suo approccio non è per niente utopico. Piuttosto esso nasce da una nuova visione morale secondo la quale ……. Che cosa intende dicendo questo?

R. Molti approcci vedono il cambiamento sociale attraverso le lenti dell’idealismo, proponendo un idea di essere umano che velocemente degenera in approcci moralistici che finiscono col diventare autoritari, nel senso che ci dicono come dobbiamo comportarsi. Al contrario, il mio approccio è naturalistico. Si parta con l’osservare quali siano le pratiche p2p che stanno emergendo. Da questa base empirica mi domando quali di queste pratiche rispecchia valori etici in grado di produrre valore sociale? Da qui nascono le pratiche di emancipazione che lavorano principalmente sulla interconnessione e ideazione di progetti comuni. Come possiamo far connettere le nuove pratiche di vita così che esse possano fortificarsi imparando le une dalle altre? Come possiamo stimolare il potenziale che è presente nella società attraverso l’abbassamento dei costi di transazione e controllo, ma anche scoraggiando comportamenti negativi rendendoli più costosi? Questo è un approccio realistico per il raggiungimento di ‘micro-utopie’, che nel lungo periodo potrebbero cambiare la fondamenta della nostra civilizzazione.


Q: Uno dei punti più interessanti del suo ragionamento riguarda il fatto che la peer production necessita di un concetto di proprietà sostanzialmente differente da quello capitalista. La peer production, in fatti, si rifà ad una infrastruttura legale che permette la creazione di quello che tu definisci Informazione Comune. Ci spiega quali sono i tecnicismi di questa forma di proprietà?

Ad ogni forma sociale si accompagna una tecnica riproduttiva; nel caso della peer production risulta cruciale che sia protetta dall’appropriazione privata. La peer property non è ne proprietà pubblica ne privata, bensì comune,. La proprietà privata capitalista è esclusiva; detto nel modo più semplice possibile: ciò che è mio, non è tuo. La proprietà pubblica è sicuramente di tutti, ma paradossalmente anche di nessuno. Quest’ultima è una conseguenza della sua forma rappresentazionale. Noi scegliamo democraticamente; o meglio, qualcuno sceglie per noi che corpi collettivi rappresentino la sovranità di un particolare bene, cosa che implicitamente esclude la proprietà del bene da parte di ognuno. In quest’ottica il collettivo esclude l’individuo. La proprietà comune si muove su di una piano diverso. Il bene in questione proviene dalla collaborazione di persone, le quali non possono essere escluse ne dalla proprietà ne dall’utilizzo del bene stesso. In altre parole la peer property rende universalmente disponibile quello che è stato prodotto in comune.

Ad onor del vero, la peer production si manifesta attraverso due differenti modalità, a seconda che si applichi all’economia della condivisione o a quella della produzione in comune. Nell’economia della condivisione, l’individuo o piccoli gruppi di individui producono un artefatto, sul quale si ritiene la sovranità. Tale sovranità, a sua volta permette di stabilire le modalità della condivisone del bene. Un esempio tipico sono le Creative Commons Licences, che permettono di utilizzare ciò che è stato prodotto a patto che si accettino certe condizioni stabilite dall’autore. Nella produzione comune invece è chiaro che ciò che viene prodotto è il frutto dela cooperazione di un gruppo molto ampio. In questo caso la regola vigente recita che sebbene la contribuzione di ogni partecipante è pienamente riconosciuta così come la proprietà, il bene prodotto diventa una risorsa comune. Tutti la possono usare, copiare, modificare, ed ogni modificazione rientra nel sistema come risorsa comune. Qui l’esempio tipico sono le General Public Licence utilizzate dalle comunità dei liberi programmatori di software.

A dire il vero esiste una terza modalità. Sempre più spesso, le grandi multinazionali tentano di integrare vari aspetti della peer production nella loro catena di creazione di valore. In virtù del fatto che esse tentano di monetizzare la produzione comune attraverso l’immissione di clausole pericolose, come ad esempio quella secondo la quale ogni contribuzione diventa automaticamente proprietà della piattaforma, sebbene le regole di condivisione e distribuzione sono rispettate, non ci troviamo di fronte ad un caso di peer property. Piuttosto, questi casi rappresentano una nuova forma di enclosure.


Q: Poco fa lei stava dicendo che il modello p2p non solo si riferisce all’economia ma anche ad una forma di governace radicalmente differente . A questo proposito lei ha affermato che al centro della peer governace sta la nozione di moltitudine e di democrazia assoluta. Per supportare la sua teoria lei fa esplicito riferimento alle teorie di autori come Toni Negri, Miguel Benassayan e John Holloway. Ci può spiegare meglio questo passaggio?

All’interno di una economia che si basa sulla libera contribuzione, la peer production contribuisce a favorire un autonomia che nasce dalla cooperazione,. Questo modo di produzione è in netto contrasto con il modello capitalista, che sebbene garantisca di scegliere liberamente i rappresentanti nella sfera politica, affianca una sfera produttiva che è gerarchia e feudale, nel senso che mantiene la sottomissione del lavoro al capitale. Con la peer production, i co-produttori partecipano direttamente nel processo decisionale. Il principio fondamentale è che chi lavora decide. La partecipazione è resa possibile eliminando il più possibile i permessi d’accesso. Basandosi su di una auto-selezione, nel contesto di un processo probabilistico di produzione, si supportata una mirata meritocrazia all’interno di piccoli gruppi (cambio di ledership a seconda dei differenti contesti) e processi di validazione comuni susseguenti la produzione. Quando si opera in una sfera di abbondanza, dove i beni non-rivali possono essere riprodotti da tutti a un costo marginale, allora non vi è più bisogno ne di mercato, ne di gerarchie, ne di democrazia, in quanto le risorse sono allocate dagli individui stessi che sono la risorsa produttiva principale del sistema. Questo rappresenta sia la forza che la debolezza della peer production. Ad esempio, Linux and Wikipidia posso auto-regolarsi, ma la struttura della cooperazione è ancora costosa, e quindi seguendo regole formali democratiche, un nuovo tipo di organizzazione for-benefit generalmente si prende cura di loro. Non appena sorge la necessità di allocare risorse, c’è bisogno di un meccanismo per mitigare la così detta ‘tirannia della mancanza di struttura’, e ciò prenderà nel migliore dei casi una forma rappresentativa. Quindi, a mio parere, quello che può succedere è che il modello p2p possa per il momento diventare complementare alla democrazia, ma non rimpiazzarla. Ad ogni buon conto, ci si può aspettare che la non-rappresentanza diventi una forma molto più rilevante della attuale rappresentanza. Si potrebbe anche immaginare che qualora la mole di contribuzione volontaria diventi dominante, la pressione si faccia così forte che le istituzioni democratiche si dovranno trasformare, non a seconda dell’influenza degli interessi delle grandi multinazionali che ora dominano la forma dello stato, ma secondo parametri prettamente democratici.


Q: Nei suoi scritti ha dedicato molto tempo a distinguere la tua proposta da altre forme di organizzazione economica, come ad esempio quella legata all’economia del dono. A tal proposto sostiene che il p2p non è una economia del dono che si basa sull’eguale condivisione, ma una forma di condivisione comune che si basa sulla partecipazione. Perché questa distinzione risulta essere così cruciale nel suo argomento?

La distinzione è cruciale rispetto a quel fenomeno che gli antropologi chiamano crowding out, cioè quando una logica sociale può farne scomparire un'altra. L’economia del dono è un sistema che si basa sulla reciprocità e sulla simmetria. Colui che da, crea una immagine prestigiosa di se, e un obbligo nel beneficiario, che si sente chiamato a ristabilire un equilibrio relazionale donando qualcosa a sua volta. E’ un sistema basato sulle relazioni personali. Il mercato, d’altra parte, è un sistema di scambio di valori eguali, basato su relazioni impersonali. La condivisione comune si basa sulla gentilezza dello straniero, espandendo la sfera della cooperazione sociale a persone che non conosciamo, pur lavorando a progetti comuni.

La condivisione comune si basa su di una logica che suona più o meno così: tu dai quello che puoi da immettere nella risorsa comune, dalla quale ognuno potrà poi prendere a seconda dei propri bisogni. Non si ottiene nulla in cambio della contribuzione, se non indirettamente, ovviamente, conoscenza, relazioni, reputazione. Ma anche coloro che non partecipano direttamente, non contribuiscono al progetto comune, possono trarre benefici usando la risorsa comune. La motivazione a contribuire volontariamente sorge dalla convergenza degli interessi individuali e collettivi.

La mia posizione riguardo l’economia del dono è più ideologica. E’ usata dagli apologeti del mercato per sostenere la loro visione dell’uomo economico, che da soltanto a fronte di un ritorno sicuro. Ma la peer production appartiene a una logica differente. Ritengo sia un bene per l’umanità avere una visione più ricca delle motivazioni umane, e comprendere a che condizioni possa verificarsi un impegno non-reciproco, un tipo di ricerca che sarebbe oscurata dall’economia del dono.

A questo punto è però necessario dire che la peer production funziona soltanto per beni non rivali che possono essere condivisi senza perdita da parte di alcuno; nel mercato, dove si scambiano beni scarsi e rivali tra loro, noi abbiamo bisogno di meccanismi basati suolo scambio e sulla reciprocità. Comunità di open designer devono essere quindi affiancate da meccanismi di mercato e da altre forme di allocazione.


Q: Lei sostiene che mentre la gerarchia è predicata sulla base di similitudine da ottenersi attraverso identificazione e esclusione, ed è associata ad un universalismo astratto di matrice illuministica, il p2p ‘è unità nella diversità, è un concreto universalismo ‘post-illuministico’, che si basa sulla comunanza dei progetti.’ E’ forse questo un modo per dire che la peer production è sostenuta – e legittimata – da una concezione della giustizia capace di fronteggiare le sfide dell’era post-moderna?

R: Il principio fondatore che sta alla base della mia idea relazionale è l’equi-potenzialità. Secondo questa visione dell’umanità ognuno può eccelle in una determinata area, ma nessuna di queste capacità è superiore o inferiore alle altre. La capacità di identificare la grande varietà di combinazioni di abilità differenti permette di riconoscere la contribuzione di ciascuno a un progetto comune, così come permette ad altri di riconoscere la mia contribuzione nello stesso o in un altro progetto. Attraverso la costruzione della nostra identità a seconda dei progetti comuni in cui siamo coinvolti supera la frammentazione e l’isolamento, creando un grande interazione che, attraverso la contribuzione appunto, arricchisce il nostro universo. La differenza sta in come s’intende il termine arricchire. Noi sappiamo che partecipiamo a molti progetti comuni e questo è il collante che tiene assieme le persone. Ogni persona non solo deve essere onorato per quello che fa ma deve anche essere ricompensato per il proprio mix di capacità. In altre parole si merita un reddito per la sua contribuzione a formare la ricchezza sociale, che accresce per il solo motivo di esistere e di essere interconnesso ad altri. Per rendere la società più sostenibile un reddito universale deve essere legato alla richiesta di contribuire almeno in parte al bene comune,.


D: la tua idea sta ricevendo grande attenzione. Sei riuscito ad organizzare seminari di altissimo profilo nelle principali università europee (Sorbona, Nottingam) per discutere di peer production. Inoltre c’è un crescente interesse da parte di imprese commerciali circa la comprensione dei processi che stanno alla base del tuo paradigma, come dimostrato dal fatto che il tuo tempo è diviso tra l’implementare la base teorica e formazione nelle grandi aziende. Come spieghi l’interesse del settore commerciale e, visto tutto questo interesse, quale futuro vedi, diciamo nei prossimi 20/30 anni, per la peer production?

Gli attori del mercato comprendono bene che i principi attorno ai quali ruota la peer production presentano vantaggi competitivi. Io ho riassunto questa posizione trovando la cosiddetta ‘legge della competizione asimmetrica’. Essa dice che quando una compagnia che fa profitto utilizzando lavoro salariato e patenti tecnologiche si ritrova a competere con una organizzazione for-benefit, la quale può accedere a un vasto circuito di volontari e usa piattaforme che sono possedute da tutti, ha poche probabilità di vincere la partita. La ragione è che le motivazioni che spingono le persone verso la peer production sono più forti – ad esempio, motivazioni positive intrinseche che derivano dalla passione, la ricerca di una qualità assoluta (si produce al meglio delle possibilità di ciascun componente del gruppo). I beni prodotti non sono mai dati in forma definitiva c’è sempre un versione successiva migliore della prima. Al contrario, la realtà for-profit cercherà di produrre un prodotto di qualità relativa, ovvero un prodotto che sia soltanto migliore di quello offerto dai suoi competitori. Da ciò segue che ogni compagnia for-profit o autorità pubblica che adotti pratiche partecipative e comuni tenderà ad accaparrarsi vantaggi competitivi se comparati a chi non le adotta. Questo è quello che muove l’interesse del mercato nei confronti della peer production, rendendo sempre più diffusa questa pratica nella società. Il processo è molto simile al modo in cui il sistema schiavistico si è prima trasformato in feudalesimo e poi nel sistema capitalistico: attraverso una riconfigurazione della elites e della classe produttiva. La visione di Marx era una anomalia storica che ora noi sappiamo non essere mai stata confermata. Per quanto riguarda il futuro posso soltanto offrire questa immagine: la peer production è come un germe che introdotto ai margini del mercato si espande sempre più velocemente, fino a quando non raggiungerà uno status eguale a quello del suo ospite. Ad un certo punto, il vecchio sistema entra in crisi e un nuovo meta-sistema prenderà il suo posto. ..

Q: Vorrei finire questa intervista ritornando su due tue affermazioni particolarmente impegnative: la prima riguarda il fatto che la peer production potrebbe davvero cambiare la natura del capitalismo, e che potrebbe addirittura risolvere il problema del free-rider….

Il capitalismo globale si ritrova nello stesso vicolo cieco in cui si trovo l’antica Roma: una crisi di accumulazione estensiva, perchè non riesce più ad esternalizzare i costi ambientali. Il passaggio alla produzione immateriale ha inoltre creato una crisi di valore. In fatti, i costi marginali di riproduzione dei beni immateriali non-rivali si contrappone alla logica della scarsità che è alla base del mercato. Così la marketizzazione, la monetarizzazione muove ai margini dei nuovi beni collettivi. La produzione sociale diretta di valore cresce esponenzialmente. …..??? Inoltre, ogni bene prodotto, deve prima essere ideato in maniera immateriale, attraverso processi che non sono molto differenti da quelli che servono a creare sowtware e conoscenza. E’ quindi soltanto una questione di tempo, ma sono convinto che le comunità di ideatori di liberi sowtware riuscirà a produrre artefatti migliori di quelli offerti dal mercato. Se si accetta che il processo di innovazione sociale prederà piede al di fuori della sfera del capitale, si dovrà anche accettare il fatto che avremo bisogno di nuove strutture sociali. Proprio come i padroni di schiavi dell’antica Roma che si accorsero che una crescita intensiva poteva accadere soltanto con la liberazione degli schiavi, cosi il capitale si ritrova a fronteggiare il fatto che la nuova economia dell’esperienza non potrà più essere capitalista. Un cambiamento della logica capitalista sembra inevitabile, anche se è difficile immaginare la precisa natura del nuovo contratto sociale capace di prendere seriamente in considerazione la peer production. Per quanto riguarda l’affermazione circa il free-rider, credo che esso rappresenti un problema serio soltanto in un contesto produttivo finalizzato alla produzione di beni materiali; e in questo senso diventa un problema di governance e regolazione intelligente. Nella sfera immateriale, anche se esistono incidenti di percorso come lo spamming, trolling, etc., il free-rider non rappresenta più un problema. Al contrario, è la vera natura del sistema p2p in quanto esso tramuta ogni tipo di utilizzo in una risorsa produttiva che ritorna all’intero del sistema. Mentre sia per sistemi centralizzati che per quelli decentralizzati un utilizzo consistente diventa problematico, gli ideatori delle piattaforme p2p creano una dinamica diversa. Ogni partecipante diventa in una risorsa per il sistema. La nuova piattaforma proprietaria esiste per scelta dei suo creatori: essi hanno setup centralizzati e decentralizzati che sono costosi da mantenere, e quindi richiedono elevati capitali. Comunque, è mia ferma convinzione che questi vincoli possano essere spazzati via da infrastrutture pienamente distribuite.La questione centrale rimane però come sia possibile combinare la peer production immateriale (non-reciproca), con il bisogno di reciprocità richiesta dalla produzione fisica di materie scarse? Quando si troverà la risposta a queto quesito, avremo raggiunto la maturità sufficiente per passare a una economia politica e una civilizzazione p2p.