Michel Bauwens: Come l’abbondanza immateriale può assistere un’economia stabile

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Come l’abbondanza immateriale può assistere un’economia stabile
Dibattito sul testo “Abbondanza di cibo contro abbondanza di ricette”, con commenti di Michel Bauwens, Franz Nahrada e Wofgang Hoeschele al documento di Brian Davey del 17 novembre 2010
di Michel Bauwens - Traduzione di Giuseppe Volpe, Socialforge - 2012

Text

Brian Davey ha scritto un testo molto stimolante, pubblicato [in italiano] qui, che ammonisce contro il parificare l’abbondanza di cultura immateriale con l’abbondanza di produzione materiale.

Si tratta di un argomento molto importante sul quale fondamentalmente concordiamo. Ciò nonostante io credo anche che Brian Davey non comprenda l’importanza dell’abbondanza immateriale nel risolvere la crisi della scarsità materiale.

Rivediamo rapidamente i punti sui quali posso facilmente dirmi d’accordo.

Sì, non possiamo ingenuamente sperare che l’era dell’abbondanza materiale continui con la stessa forza, senza riconoscere le scarsità materiali che si stanno facendo di giorno in giorno più gravi. Una seria contrazione del livello industriale standard di produzione materiale è più che probabile.

Sì, l’infrastruttura Internet è essa stessa un’infrastruttura materiale costosa.

Sì, non possiamo ingenuamente presumere che “abbondante” energia rinnovabile sostituisca del tutto, o almeno in misura significativa, la sovrabbondanza di combustibili fossili cui ci siamo abituati. Le rinnovabili non sono soluzioni magiche e hanno sia limiti assoluti sia problemi concreti di concentrazione per i bisogni umani.

Dunque, in conclusione, sono d’accordo che sia molto pericoloso mettere fare un unico fascio dell’ “abbondanza immateriale” e dell’abbondanza materiale. E questo è infatti un argomento che ho costantemente sostenuto nel mio intervento: che il presente sistema combina pseudo-abbondanza, una fiducia errata nell’infinita abbondanza del mondo materiale, ritenendo che la crescita infinita sia compatibile con un pianeta finita, con l’idea della necessità della scarsità artificiale nel mondo dell’innovazione della cultura e dell’innovazioni immateriali, rendendo molto difficile agli umani condividere e collaborare liberamente. Ho sostenuto che quella che ho chiamato la civiltà sostitutiva, centrata sui commons e le dinamiche paritarie, che sussume sia il mercato sia lo stato, capovolgerà quel sistema operativo sbagliato in uno che riconosce sia la scarsità reale del mondo materiale sia l’abbondanza di scambi culturali in un contesto digitale.

La mia tesi chiave sarebbe che un transizione riuscita a un’economia stabile, o anche una decrescita, dipende dalla cooperazione globale e dalla struttura di rete disponibile.

Alcuni punti ovvi:

- Internet è uno strumento chiave della collaborazione umana e della rapida innovazione. L’umanità affronterà molte sfide e, anche se le situazioni locali sono diverse, ci sono anche importanti cose in comune, il che significa che gli esseri umani dovrebbero apprendere gli uni dagli altri. Tale apprendimento, in cui ogni innovazione potenziale è istantaneamente disponibile al resto dell’umanità, è ciò che promette la cultura libera (un termine sbagliato, nel senso che significa la vastissima collaborazione degli esseri umani riguardo a una serie di problemi). Naturalmente, esposto in questo modo, si tratta di un ottimismo esagerato. D’altro canto si pensi a come la conoscenza sarebbe trasmessa senza Internet, senza la stampa e persino senza la scrittura. Nell’affrontare sfide globali, molte delle quali sono urgenti, abbiamo alternative? Possiamo permetterci di non mobilitare l’intelligenza collettiva transnazionale? Possiamo permetterci che le località restino totalmente isolate? Non è necessario adorare la velocità al fine di capire che essa ha effettivamente un certo ruolo da svolgere e che l’isolamento a causa di alti costi per operazione, comunicazione e coordinamento non sarebbero una cosa buona in quel contesto di urgente risoluzione di problemi.

- Le comunità globali aperte di sapere, codice e progettazione seguono una logica diversa da quella delle imprese capitaliste. Mentre l’innovazione capitalista progetta in funzione di grandi impieghi di capitale (per eliminare la competizione), di produzione centralizzata e di catene internazionali di valore per il consumo attraverso l’obsolescenza programmata, le comunità di progettazione aperta progettano per la produzione distribuita (non solo ‘fab lab’ (1) bensì un riorientamento generale della produzione che ruoti intorno a una tecnologia appropriata che utilizzi una fabbricazione aperta e distribuita) senza obsolescenza programmata.

- Internet è uno strumento di socializzazione paritaria e non gerarchica. Brian nota quanto è stata diverso il Congresso di Berlino sui Commons, nel suo dialogo aperto e nella sua tolleranza per la diversità di opinioni, rispetto ai vecchi scontri per la verità nella sinistra cui era abituato in gioventù. Ma c’è un motivo per questo e precisamente che il processo di socializzazione tra pari, in un contesto di abbondanza culturale, allena a questo tipo di collaborazione.

- Condividere infrastrutture e accesso a risorse comuni, come ad esempio i trasporti, funziona soltanto con una condivisione del sapere molto diffusa a basso costo di coordinamento. Ad esempio la condivisione di biciclette falliva sistematicamente prima dell’avvento dei media digitali, ma ora in molte città rappresenta praticamente una routine. Ci sono enormi possibilità di ridurre la necessità di produzione materiale (di proprietà individuali) attraverso la condivisione di infrastrutture che dipendano da infrastrutture internet.

- Le comunità locali isolate sono forme svantaggiata dal nanismo che, anche se ecologicamente a minor impatto, dovrebbero confrontarsi con le imprese transnazionali e con gli stati-nazione competitivi. Ciò è una garanzia di conflitto sociale, ovvero di possibili confronti violenti riguardanti risorse scarse. D’altro canto una produzione locale che si accompagni a comunità di progettazione aperta e alla condivisione globale della conoscenza può facilmente superare, nella collaborazione, le capacità di coordinamento delle imprese transnazionali, mentre le comunità [ ‘phyles’ nell’originale] transnazionali, ovvero le reti di valore coordinate che sono responsabili della propria sussistenza, possono offrire fraternità e solidarietà in un’era di stati assistenziali in declino. La collaborazione “attivata digitalmente” apre possibilità di nuove reti di governance globale che possono affrontare sfide globali in modo che non sono possibili né alle comunità locali né agli stati nazione.

Dunque la conclusione è che l’abbondanza materiale non è contrapposta alle economie materiali sostenibili, ma è una condizione per una transizione più agevole a tale stato di cose. Anche se dobbiamo riconoscere che una tale infrastruttura è costosa e potrebbe non sopravvivere a un crollo ecologico, non è qualcosa che dobbiamo desiderare ma qualcosa che, se possibile, dovrebbe essere evitato. Tra le scelte d’investimento dell’umanità, la possibilità della cooperazione globale e dell’intelligenza collettiva transnazionale, non dovrebbe essere scartata, ma sarebbe una delle scelte migliori. Questo naturalmente non significa che la stessa informatica non possa diventare molto più ecologica [verde] di quanto è ora. E’ difficile immaginare come un’economia stabile, di decrescita o “dalla culla alla culla” [cradle to cradle] si possa conseguire senza lacrime e sangue, senza l’uso dell’intelligenza collettiva.

Il nodo cruciale della questione è questo: siamo indubbiamente di fronte alla fine dell’abbondanza materiale basata sui combustibili fossili. Ma questa trasformazione può aver luogo nel modo brutto, ovvero mediante un ridimensionamento terribile e costoso che può condurre a nuove forme di neotribalismo e neofeudalesimo patologici. Questo è il percorso probabile se scegliamo il localismo isolato, senza accesso al mutuo coordinamento globale che ora è possibile conseguire. Non serve avere colture organiche locali se ci si trova di fronte a bande nomadi di armati che vogliono la tua produzione. Oppure la nostra società si può trasformare passando a un livello di complessità più elevato, ricavando una sintesi tra un’economia stabile e una vita sociale e culturale globale molto ricca di mutuo coordinamento su scala planetaria e una ricca creazione di produzione relocalizzata.

La visione paritaria promette almeno, se realizzabile, questa nuova sintesi, un connubio della materialità locale e dell’immaterialità globale, invece di un ritorno a un localismo regressivo in un contesto di conflitti civili, tra imprese e tra stati nazione, per le risorse materiali che scarseggiano.

(1) [Letteralmente ‘laboratori di fabbricazione’, ma si potrebbe tradurre anche come ‘laboratori magici’ (da ‘fab’ = fabulous): fabbriche in grado di produrre idealmente qualsiasi cosa partendo da un progetto in formato elettronico (CAD) affidato a una macchina laser a controllo numerico che provvede alla realizzazione materiale. Il primo ‘fab lab’ è stato il ‘rep rap’ – n.d.t.]


Franz Nahrada: Quali sono le condizioni dell’abbondanza?

Ci sono pochi altri punti da fissare. L’argomentazione “ecologica” tradizionale utilizzata dal Club di Roma si limita solitamente ad aggregare aspetti quantitativi dei processi produttivi con capacità riproduttive senza considerare la loro interazione; è cioè un po’ mal coordinata e mal costruita rispetto alle condizioni economiche attuali.

Michael Braungart ha tradotto ciò in un’immagine semplice: quando si ha una produzione materiale mal progettata che produce scarti, ogni attività ulteriore di questa produzione materiale aumenterà alla fine la scarsità complessiva. Ma se i prodotti sono progettati per essere essi stessi parti di cascate di riutilizzo e riconversione [up-cycling], ciascuna attività aggiuntiva accrescerà la base per altre attività e creerà abbondanza.

C’è un fattore qualitativo che determina l’interazione tra le nostre crescenti informazioni e il mondo materiale: è la capacità di ideare e progettare cicli che si autoalimentino e si autosostengano e soluzioni per cui gli sforzi umani non vadano persi una volta compiuti ma conseguano sistematicamente utili sistemici da tali apporti.

Il modo di produzione capitalista-industriale è stato incentrato su una concezione monodimensionale del valore che si traduce in un meccanismo di risorse – prodotto [input – output] di cosiddetta efficienza. McLuhan ha osservato una volta che per questo meccanismo non ha importanza quale sia il prodotto che ne esce, che si tratti di cornflakes o di Cadillac, fintantoché il risultato può tradursi in denaro. Nel modo di produzione automatizzato post-industriale la riproduzione ci richiederà di creare finalmente misure economiche e misure che riflettano l’assioma che il valore di ciascun processo è multidimensionale.

Per esempio non è assolutamente privo d’importanza dove la produzione ha luogo. Se il calore eccessivo di una centrale di server [server farm] che è necessario per il funzionamento dell’infrastruttura Internet viene utilizzato per il riscaldamento di un insediamento umano, c’è un guadagno sistemico semplicemente dalla progettazione in tal senso. Tutto allora è deciso dallo spazio, dal tempo e dall’interagibilità delle cose. Ciò impone un balzo gigantesco in intelligenza e informazioni in alcun modo facile da realizzare. Dobbiamo studiare modelli possibili e apprendere riguardo alla loro complessa interazione come condizione essenziale per decidere.

Sarebbe utile analizzare la nostra società attuale come produttrice costante di sprechi, sia sprechi immediati sia sprechi sistemici. La risposta può non essere facile da trovare ma non sta nei numeri bensì nell’interazione delle cose. La natura è un grande sistema di abbondanza (molto più di uno “stato stabile”) ovvero non produce scarti. Dobbiamo imparare da essa ed essere partecipi dei suoi cicli, affinarli e assecondarli invece di astenerci da attività. Questa è la svolta importante che possiamo definire e realizzare insieme.


Wolfgang Hoeschele: Economia dell’abbondanza

Nel suo documento per il dibattito Brian Davey esprime la sua preoccupazione (che io condivido) per l’imminente grave scarsità di risorse e la sua opinione che chi parla di “abbondanza” non prende sul serio la scarsità di risorse ed è perciò eccessivamente ottimista circa il futuro del mondo. Egli ipotizza inoltre che queste persone provengano da precedenti nei “commons culturali e scientifici” e considera tali precedenti parte del motivo del loro eccessivo ottimismo.

Anche se io non posso parlare per chiunque promuova idee di abbondanza, posso certamente parlare per me stesso, visto che ho scritto un libro sulla “Economia dell’abbondanza”. Brian Davey sicuramente non ha avuto l’opportunità di leggere tale libro che è stato appena pubblicato e probabilmente non era a conoscenza della sua esistenza prima del Congresso Internazionale sui Commons. In questo spazio vorrei sintetizzare parte delle idee che avanzo nel libro per dimostrare che promuovere una “economia dell’abbondanza” è qualcosa di molto diverso dall’ignorare la scarsità di risorse, non implica un ottimismo eccessivo e non richiede una formazione nell’industria informatica (alla quale io non appartengo, essendo un geografo abituato a trattare problemi molto “terra terra” di utilizzo delle risorse).

La produzione della scarsità

Innanzitutto vorrei sottolineare che le risorse materiali possono essere abbondanti anche se esistono in quantità finita. Le risorse materiali sono abbondanti se sono utilizzate in modi che non le esauriscano o le degradino (ad esempio, respirare l’aria) o se ce n’è una quantità molto superiore a quella necessaria per le persone (ad esempio, i banchi di pesca in luoghi in cui si pesca solo un piccola parte del prodotto sostenibile).

Un problema fondamentale dell’economia attuale è che non vede valore nelle risorse abbondanti perché non si possono vendere con un alto margine di profitto; ad esempio non si può confezionare l’aria da respirare e poi venderla a qualcuno; dove il pesce è abbondante si può vendere ma solo a un prezzo modesto. In altre parole, è riconosciuto solo il valore di scambio e non il valore d’uso. Per gli imprenditori è perciò vantaggioso rendere scarse le risorse abbondanti in modo che possano essere vendute a un prezzo più elevato e generare maggior valore di scambio. La tesi che sostengo nel mio libro è che l’attività di rendere scarse le risorse abbondanti non è lasciato all’iniziativa individuale, ma è compiuto da istituzioni che generano scarsità. La scarsità può essere prodotta manipolando la domanda o l’offerta di un bene in modo tale che la domanda superi l’offerta. In questo senso c’è scarsità anche quando c’è un’enorme quantità di produzione. Si può sempre descrivere la cosa in questi termini: la nostra economia attuale massimizza l’inefficienza del consumo in modo da generare la domanda necessaria a giustificare un produzione in crescente aumento. In un simile contesto, l’accresciuta efficienza della produzione non fa nulla per affrontare i problemi della scarsità di risorse.

Un buon esempio riguarda i trasporti. La mobilità – la capacità di andare dove si ha bisogno di andare – è massimamente abbondante e la maggior parte delle persone possono raggiungere la loro destinazione quotidiana a piedi o in bicicletta o mediante trasporti pubblici. In questo modo tutti possono permettersi la mobilità che è disponibile ai bambini piccoli (appena possono spostarsi in modo indipendente), ai vecchi (che possono utilizzare i trasporti pubblici se non possono più camminare, andare in bicicletta o guidare), a tutti i membri delle famiglie con un’auto sola e alle persone con disabilità che impediscono loro di guidare o camminare o andare in bicicletta (che tuttavia sono in grado di usare il trasporto pubblico). In queste condizioni di abbondanza sarebbe possibile per la maggior parte delle persone non possedere un’auto propria ma affidarsi alle auto in comune [car-sharing] o ai servizi di taxi nelle occasioni relativamente rare in cui abbiano necessità di un veicolo a motore. Le condizioni che sostengono la mobilità abbondante – città compatte con strade aperte al movimento a piedi, in bicicletta e alla socializzazione – sostengono anche più bassi investimenti pro capite in infrastrutture e, nel complesso, un minor uso di risorse che amplino indiscriminatamente città progettate per la dipendenza dalle automobili.

Quindi l’abbondanza non consiste nel fatto che tutti abbiano un’automobile, bensì nel fatto che tutti siano in grado di spostarsi a basso costo, senza dipendere da catene di beni complesse e insostenibili, mentre la “scarsità” consiste nel fatto che tutti vogliano un’auto, o ne abbiano necessità, indipendentemente dal fatto che possano permettersela o meno.

Il fatto che così tante città non supportino una mobilità abbondante è il risultato di sforzi concertati dell’industria automobilistica, dell’industria del petrolio, degli interessi immobiliari e di vari settori economici associati, che insieme hanno influenzato i governi affinché costruissero o ricostruissero città e infrastrutture dei trasporti al servizio dei “bisogni” delle automobili (si noti che gli oggetti inanimati non hanno bisogni). Ho rilevato che parlare di come queste istituzioni generino scarsità e le alternative creino abbondanza suscita grande entusiasmo e creatività nei gruppi per il cambiamento, come in un seminario che ho tenuto di recente: http://shareable.net/blog/abundant-mobility-one-towns-resources

La scarsità è generata anche da regimi iniqui di proprietà. Ad esempio se poche persone (capitalisti, aristocrazia terriera e simili) sono proprietarie dei mezzi di produzione (che questi consistano in terreni, acqua, accesso a banchi di pesca o a zone di caccia, fabbriche o qualsiasi altra cosa) mentre altri sono vincolati a vendere il proprio lavoro al fine di ricavare un reddito, allora i proprietari hanno interessi a mantenere scarsa l’occupazione, per conservare un esercito di lavoratori disoccupati che mantiene basse le paghe. Sappiamo tutto questo da Marx; non è nulla di nuovo.

Ci sono inoltre importanti “mezzi di produzione” che tradizionalmente non sono di proprietà di nessuno ed è vantaggioso per gli industriali utilizzarli come beni naturali gratuiti e inquinarli o degradarli in altro modo. Tra questi vi sono l’aria e l’acqua pulite; inquinarle crea scarsità presso tutti coloro la cui salute ne è colpita negativamente. Allora diventano necessari grandi investimenti per pulire l’aria e l’acqua, a vantaggio di quegli stessi industriali che fabbricano le attrezzature necessarie. La proprietà comune delle risorse naturali (commons delle risorse naturali), così come dei luoghi di lavoro (commons delle cooperative di lavoro) e della conoscenza (commons della scienza) è essenziale per smontare questo modo di produzione della scarsità e creare invece abbondanza.

A livello di psicologia individuale la scarsità è la conseguenza del non sapere quando “il troppo stroppia”, del volere sempre di più. Questo modo di pensare drogato è promosso da una cultura consumista e dall’insicurezza e dalla paura del futuro; superare tale tossicodipendenza richiede esattamente quelle “relazioni umane positive in comunità amorevoli che generano sensazioni di pace, di appagamento, di amore, felicità e altre gratificazioni psichiche che si sottraggono alla quantificazione” che Roberto Verzola cita nel suo documento.

Un’economia dell’abbondanza non è un’economia che presuppone che l’abbondanza esista necessariamente, bensì un’economia che analizza i modi di produzione della scarsità, quali quelli che ho citato più sopra, e che evidenzia modi per contrastarli. Proprio così come la scarsità è costruita socialmente (ed è molto reale, così come è reale un edificio costruito dall’uomo) anche l’abbondanza deve essere creata. Nella situazione attuale, si tratta di un compito che intimidisce; se riusciremo a portarlo a compimento prima di trovarci di fronte alla catastrofe ecologica, non lo so. Tuttavia sento profondamente che l’idea di generare abbondanza evidenzi il cammino che dobbiamo intraprendere se vogliamo avere una qualche speranza di evitare il disastro. Dunque il valore delle mie proposte non dipende da ottimismo o pessimismo; dipende dal fatto che esse siano o meno vie d’uscita dalle difficoltà attuali."


Source

Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

http://socialforge.org/art/847

Fonte: http://p2pfoundation.net/Abundance_of_Food_vs_the_Abundance_of_Recipes

Originale: p2pfoundation

Traduzione di Giuseppe Volpe

© 2012 Socialforge – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0